Cinemagay.it: Queer Lion 2018, le pagelle di Sandro Avanzo

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IL QUEER LION 2018 INIZIA SOTTO L’INSEGNA DI SAFFO

Dalla 75ma Mostra di Venezia le recensioni del critico Sandro Avanzo

Strano telo

Tendenza: 3/5 (GG)
Voto: 

Friedkin Uncut

Tendenza: 2/5 (G)
Voto: 

Doubles vies (Non-Fiction)

Tendenza: 1/5 (L)
Voto: 

C’est ça l’amour (Real Love)

Tendenza: 2/5 (L)
Voto: 

José

Tendenza: 5/5 (GGG)
Voto:  

Primi giorni di festival al Lido e già sono passati sugli schermi, in gran numero, i primi film in corsa per il Queer Lion 2018. Con la grande novità di un’inedita Sezione Fuori-Concorso in cui da quest’anno alla già corposa lista di titoli in lizza per il leone rainbow si vanno ad affiancare quei documentari e quelle pellicole fuori-formato che non possono rientrare nel concorso queer ufficiale.

FRIEDKIN UNCUT
di Francesco Zippel
Tra i primi va ricordato “Friedkin Uncut” che Francesco Zippel ha realizzato a partire da lunghe interviste al trasgressivo regista americano durante la kermesse festivaliera al Lido dello scorso anno, quando venne presentato il suo documentario (autobiografico) sull’esorcismo “The Devil and Father Amorth”. Guardando direttamente lo spettatore, l’autore de “L’esorcista”, di “Il braccio violento della legge”, di “Vivere e morire a Los Angeles”, parla dei temi che più gli sono stati a cuore, racconta delle influenze che lo hanno segnato e delle vicende che maggiormente hanno caratterizzato il suo cinema e ovviamente non può che ricordare con partecipazione gli antefatti e gli esiti del controverso cult “Cruising” che in epoca pre-aids riprendeva Al Pacino in tenuta leather battere in cerca di uomini negli angoli più segreti di Central Park e nelle discoteche più dark e più hot di New York.

STRANO TELO (FOREIGN BODY)
di Dušan Zorić
Mentre sono i 20 minuti (durata fuori norma ma con temi compatibili coi quelli del Queer Lion), a porre nel Fuori concorso il cortometraggio autobiografico “Strano telo (Foreign Body)” del serbo Dušan Zorić, momento di ricerca di una propria fisionomia sessuale tra l’infanzia, quando misurarsi il pisello è insieme un gioco e una sfida di supremazia nel gruppo dei compagni di classe e l’età adulta, quando si è costretti a mettere consapevolmente in relazione la propria virilità con l’aggressività verso gli altri e verso il mondo. La complessità della situazione è potenziata dal fatto che i due momenti sono separati dalla guerra degli anni ‘90 nei Balcani. Nello stesso tempo reticente ed esplicito nel raccontare l’aspetto omosessuale, il cortometraggio mette in mostra magnifici corpi maschili in un’esplosione di erotismo non sottolineato e proprio per questo più detonante.

La stessa sezione “Queer Lion Award: fuori concorso” evidenzia la presenza nel cartellone della Mostra 2018 di titoli importanti della cinematografia gay, così da invitare a rivedere nella loro dimensione naturale del grande schermo capolavori del calibro di “El lugar sin límites (Il luogo senza limiti)” di Arturo Ripstein (Messico, 1977), “Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo)” di Billy Wilder (Usa, 1959), “M. Butterfly” di David Cronenberg (Usa, 1993, “Il portiere di notte” di Liliana Cavani (Italia, 1974), “Morte a Venezia” di Luchino Visconti (Italia, Francia, Usa, 1971). Occasione d’oro, sempre più rara, per rivivere storia del cinema, tappe del vivere omosessuale ed emozioni, tante emozioni!

DOUBLES VIES (NON-FICTION)
di Olivier Assayas
Si son viste molte situazioni lesbiche in questo inizio di Mostra veneziana, trasversalmente in titoli di tutte le sezioni. Nell’intelligente e problematico film di Olivier Assayas “Doubles vies (Non-Fiction)” (corre per il Leone d’oro), ambientato nel mondo dell’editoria in bilico tra la carta stampata e il futuro digitale, irrompe inaspettato un esplicito rapporto lesbico tra un’assistente editoriale del web e la sua storica amante. Non è un passaggio narrativo fondamentale, ma serve da un lato a testimoniare come nel mondo intellettuale la presenza lesbica/gay sia una costante presenza enzimatica di rinnovamenti e stimoli culturali, e dall’altro a rendere più variegati e complessi i vari incontri, tradimenti e re-incontri tra i tanti personaggi che animano gli intrecci interpersonali e le loro infinite discussioni teoriche.

C’EST ÇA L’AMOUR (REAL LOVE)
di Claire Burger
Più spazio e maggior importanza occupa il tema lesbico in un altro film francese, l’autobiografico “C’est ça l’amour (Real Love)” realizzato da Claire Burger e presentato nella sezione Giornate degli Autori. Assistiamo a vicende dal sapore anni ’70 con Mario, funzionario statale impiegato in un ufficio per gli immigrati, che sta per separarsi in modo assai civile dalla moglie. Non per contrasti irrimediabili, ma perché la vita spesso porta a questo, alla separazione dopo 20 anni di matrimonio per sperimentare nuove vie e trovare altri motivi di affermazioni di sé fuori dalla famiglia. E’ la moglie a lasciare il tetto coniugale e sotto ad esso, affidandole al marito, anche le due figlie Frida di 14 anni e Niki di 17. La prima incolpa il padre di non aver saputo trattenere la madre, la più grande lo difende e ne comprende le difficoltà affettive e pratiche. Il film segue fondamentalmente la storia di Mario, della sua particolare crisi esistenziale di adulto 50enne, ma anche di bambino non cresciuto, alle prese con sentimenti contradditori e difficoltà domestiche improbe per lui. Da acquerello solo all’apparenza pallido e quotidiano, il racconto si fa via via corale e diventa un affresco vasto e composito che mette a confronto solitudini diverse e differenti sensibilità. Grottesche e insieme tenere. La ragazzina incontra il suo primo amore in una compagna di scuola per la quale è disposta a sfidare il mondo con tutti i suoi mulini a vento, la più grande è disinibita ma non intende legarsi in relazioni stabili. Il padre non sa come reagire, con la prima non vuole dimostrarsi castrante ma non ha strumenti per affrontare l’imprevista situazione (buffissima la scena in cui tenta di imporre alle due innamorate di dormire nella stessa stanza, ma in due letti diversi e con la porta aperta per poterle controllare); con la maggiore difende più le posizioni para-borghesi del quasi-fidanzato che non quelle indipendentiste della figlia. Sarà solo l’amore che comunque lega tutti i personaggi (“omnia vincit amor” direbbe Virgilio) a far in modo che tutti alla fine trovino la strada per nuovi e più solidi equilibri, ciascuno alla sua maniera e con i propri mezzi. E il tempo aiuta a individuare il percorso adeguato. Nell’economia complessiva del film (tutto concentrato sul protagonista maschile e sul suo rischio di perdere le donne della sua vita), la seduzione di Frida (davvero sorprendente la giovane interprete Justine Lacroix) a causa di un semplice bacio, il suo totale darsi al turbine affettivo, l’amarissimo abbandono da parte dell’amata non hanno un peso determinante, restano momenti determinanti di un’educazione sentimentale posta in secondo piano. La vera forza trinante di tutto il film si rivela infatti fin dall’inizio la prova attoriale di Bouli Lanners, dolente ed emozionante, nella sua straordinaria misura tra il patetico e il grottesco. Lui fa per intero il film, lui è per intero il film.

JOSÉ
di Li Cheng
Sempre nella sezione Giornate degli Autori si segnala un’originale opera 100% gay, “José”, diretta dal regista cinese Li Cheng (cinese di nascita, globe-trotter per vocazione) ma girata in Guatemala. Meno di un’ora e mezza per raccontare la situazione sociale, sessuale e familiare di un ragazzo gay diciannovenne, emblematica di tante migliaia di altre simili alla sua. Il ragazzo ha una madre molto religiosa che vive di piccoli commerci, uno stato lavorativo quanto mai precario (delivery boy per un ristorante di basso livello e su autobus affollati), un fidanzato che lo ama e che vorrebbe portarlo a vivere con sé lontano dal paese e dalla capitale. Il film ce lo mostra fin nella più impudica intimità, nudo frontalmente mentre fa la doccia, mentre fa l’amore con l’amato o con occasionali compagni incontrati per via. Nulla è sottratto allo sguardo dello spettatore, quasi come un caso studiato entomologicamente o antropologicamente. Da un lato la vita del protagonista, dall’altro la città con la sua vita fatta di traffico caotico di auto e bus, di proteste popolari, di mercati “all’occidentali” per borghesi e di quelli lungo le strade per il popolo più povero, di chiese e di quartieri alveari. In un vuoto esistenziale del genere è inevitabile per un giovane gay attaccarsi al telefono e trovare qui sesso occasionale. Ma non è con la memoria delle sue vicende e della sua realtà personale che lo spettatore esce dalla sala, queste diventano quasi un pretesto per raccontare la vita quotidiana di un paese pressoché sconosciuto al resto del mondo, una chiave più esplicita per spiegare il vivere metropolitano. Più che dalle scene hard degli incontri sessuali si resta impressionati dal machismo presente in ogni aspetto della cultura dominante, dall’importanza sociale delle varie declinazioni della religione cristiana, dalla violenza pronta a venir esercitata in pubblico in ogni circostanza e in qualsivoglia occasione. La fotografia utilizzata ha un che di grana grossa e la regia appare volutamente di fattura grezza, ma in realtà fanno entrambe parte di un voluto espediente per dare ai due piani – il privato e il pubblico – una maggior omogeneità. I travagli di José (e dei tanti ragazzi gay simili a lui) mostrati come in un documentario a fronte di riprese della città che diventano una fiction. Quale sarà il futuro di José (e del suo paese)? Non lo si può ancora sapere, lo si può solo intuire lungo una strada, su una moto insieme a un ragazzo che gli ha offerto un passaggio… Un modo di raccontare in stile più attuale vicende e realtà già viste (e forse anche più di una volta) nei lustri passati al TOgay.

Cinemagay.it di Sandro Avanzo (pubblicato in data 01/09/2018)

THE FAVOURITE, FILM ICONICO DEL DECENNIO, DA CONSACRARE NEL PARNASO DEL CINEMA QUEER

Dalla Mostra di Venezia la recensione del critico Sandro Avanzo

Emma Stone, la protagonista del film, lo ha definito “Un Eva contro Eva con più sesso” (il modello primario di riferimento resta oggettivamente quel titolo classico di Mankiewicz). Per noi è già il film iconico del decennio, da consacrare fin dalla prima proiezione nel parnaso del cinema queer. Ampolloso e barocco nelle immagini e nella forma, eccessivo nei temi e nelle azioni, viene amato dalle donne per il soggetto femminile e idolatrato dai gay per i caratteri e le vicende fuori d’ogni misura. Ironico e arguto, “camp” allo stato più puro. Di certo il miglior lavoro di sempre di Yorgos Lanthimos, qui finalmente bilanciato e padrone consapevole di ogni ingrediente, destinato in egual misura a un pubblico popolare e a quello cinematograficamente più aristocratico.

Abbandonati temi classici di “The Lobster” e di “Il sacrificio del cervo sacro”, il regista greco costruisce un Settecento barocco di totale invenzione, ma mai così autentico e così vicino al nostro vivere contemporaneo. Alla maniera del cinema di Fellini. Ma anche vicino di pianerottolo di Haneke per lo sguardo analitico, di Von Trier per la fustigazione dello spirito umano o di Kubrik per il piacere della messa in scena o di Greeneway per la precisione dei dettagli e delle luci. Per stare sugli stessi riferimenti vediamo un Settecento reso tanto farsa quanto metafora, emblematico sovvertimento dei valori sociali alla Kubrik e apoteosi della crudeltà dei linguaggi del potere alla Greeneway, riletto totalmente attraverso lo spirito ghignante di un Buñuel e l’ironia nera di un Kafka.

I nuovi bersagli di Lanthimos sono personaggi storici realmente esistiti, di cui si hanno notizie certe, ma di cui poco si sa dei reali rapporti reciproci. Su tutti la regina Anna, il cui lesbismo è documentato e accertato, così come sono documentati i suoi 17 figli morti tra aborti e malattie in tenerissima età, e accanto a lei la favorita Sarah Churchill duchessa di Marlborough e la di lei cugina Abigail Masham. Di certo è noto che all’improvviso nei favori reali di Anna (e si presume tra le lenzuola) ci fu uno scambio tra Abigail che subentrò a Sarah, mentre quest’ultima venne allontanata da corte insieme col marito. E’ giunta fino a noi anche una manciata delle lettere che la sovrana scrisse numerosissime a Sarah, ma leggendole è oggettivamente difficile riscontrarvi le tracce di una travolgente passione amorosa. Per quali motivi sia avvenuto il “cambio della guardia” nel cuore e nelle confidenze della sovrana e in quali termini si sia svolto non ci sono attestazioni documentate ma per noi è divertente pensare che tutto sia accaduto come illustrato dall’intelligentissimo copione scritto dal drammaturgo australiano Tony McNamara a partire dallo script originale di Deborah Davis. Una serie di dialoghi sintesi di battute camp e di meravigliosi doppi sensi. Il risultato è stato un film davvero originale, allegro e leggero, di pieno godimenti a più livelli.

Tutto il dramma – sia storico che privato – è contenuto all’interno delle mura del castello reale o al più entro il recinto del parco, mentre il quadro storico è limitato entro i confini del conflitto contro i Francesi di inizio secolo XVIII. La narrazione come in romanzo si articola per capitoli, 8 in totale, dai titoli bizzarri e talvolta svianti come “Quello che un vestito”, “Ho sognato che ti ho pugnalato nell’occhio”.

La Regina Anna (una stupefacente Olivia Colman) è ritratta come debole, isterica, incerta, inattendibile e intrattabile, facile ai cambiamenti di umore, costantemente afflitta dalla gotta e vogliosa di carezze, avida di cunnilingus e altri piaceri più o meno perversi, assetata di pettegolezzi di corte e di confessioni intime, in costante oscillazione tra l’euforia fanciullesca e l’ira titanica.

La Sarah Churchill di Rachel Weisz è invece la cortigiana ambiziosa che aspira ad aumentare sempre più il potere che già detiene sulla regina e che grazie alle pratiche sessuali che le dispensa pensa di potersi sostituire a lei negli affari di stato.

A Emma Stone (unica interprete americana in un cast tutto britannico) è affidato il ruolo della cugina Abigail, la piccola e intrigante nobile di campagna venduta dal padre a saldo dei debiti di gioco, brutto anatroccolo deciso a diventare cigno a tutti costi, capace di giocare le proprie carte lecite e illecite. Come in “Eva contro Eva” il traguardo era il ruolo di primadonna del palcoscenico, qui l’obiettivo diventa il rango di “Favorita” per i privilegi ad esso connessi, stavolta con la presenza in più di un terzo elemento della contesa, un elemento per nulla neutrale. Si assiste dunque a un’ininterrotta lotta a tre, sul piano della seduzione fisica, dell’arguzia verbale e della crudeltà psichica, in un intreccio di alleanze e scontri ciascuna da sola e contro l’altra.

Le tre attrici si scatenano in una gara di bravura a dar vita ad ambizioni, a paure dell’abbandono, a timori di non esser amate, a più o meno legittimi desideri di potere, una gara che le mette già in corsa per gli oscar, ma sarebbe un piacevole inedito se la Coppa Volpi di questa Venezia 2018 venisse assegnata parimenti per la prima volta a un unico trio di attrici. Come si accennava si vede il passato, ma Lanthimos lo legge in parallelo con l’oggi, con una contemporaneità in cui anche le donne sono coinvolte in primo piano in una guerra dei sessi dove non si trovano più solo avversarie del sesso maschile, ma in antagonismo tra loro. La conquista del potere un tempo arrivava a mettere nelle loro mani decisioni fondamentali di politica estera (dichiarazione di guerra) o di gestione degli affari interni (l’aumento delle tasse fondiarie), oggi non sono solamente le regine a decidere dei destini di popoli e continenti.

Lettura al femminile di un regista che nelle sue opere mette sempre la donna al centro delle proprie narrazioni. Il film vive più degli iperbolici e memorabili scontri tra Sarah e Abigail, delle allusioni sessuali nei momenti più inaspettati (come nella scena del ballo di corte in cui la Weisz si scatena in assurde posizioni da kamasutra), delle perversioni ironicamente accennate (vedi il bondage dei raffinati costumi o il tiro al bersaglio con le arance contro il cortigiano nudo) che non del pur centrale aspetto lesbico della vicenda, anche se non mancano le riprese di intimità saffica con momenti di nudo integrale; vive delle frustate e degli schiaffi tra le due rivali, dei forti contrasti sottintesi nei loro dialoghi formalmente educatissimi (ma ascoltiamo anche espressioni da birocciai).

Se Lanthimos si dimostra qui uno dei registi più dotati della sua generazione va detto che non sarebbe riuscito vincitore in quest’impresa senza l’apporto di un fantastico team di collaboratori, a partire dal direttore della fotografia Robbie Ryan che l’ha assecondato nell’uso insistito delle luci naturali per arrivare alla scenografa Fiona Crombie che ha saputo ricorrere quasi esclusivamente a set reali e non ricostruiti regalando alle immagini una magnifica aura da libro delle fiabe. Un elogio a parte merita la costumista premio oscar Sandy Powell, finalmente libera da vincoli realistici e scatenata in abiti ammalianti per quanto paradossali. Anche la magica colonna sonora composta da brani coevi (Purcell, Vivaldi, Bach) non si pone coerenza temporale e all’occorrenza ricorre senza scrupoli a Schubert o a ritmi tribali contemporanei. Torna anche il parallelismo tipico di Lanthimos tra gli esseri umani e gli animali e l’ironica sequenza finale, fatta di un infinito magma di conigli sovrapposti, non solo è lì a indicare che il potere resta in mani immutabilmente identiche, ma che nell’accavallarsi di tante lotte e drammi c’è sempre una scappatoia anarchica nell’assurdo e nello sberleffo.

TENDENZA: 5/5 (LLL)

VOTO:  

Cinemagay.it di Sandro Avanzo (pubblicato in data 01/09/2019)

ACCOGLIENZA TIEPIDA A VENEZIA PER SUSPIRIA DI LUCA GUADAGNINO E LA QUIETUD DI PABLO TRAPERO

Dalla Mostra del Cinema di Venezia le recensioni del critico Sandro Avanzo

Suspiria

di Luca Guadagnino

Tendenza: 1/5 (L)
Voto:  

Tremate, tremate, le streghe son rinate! Il rifacimento/omaggio che Guadagnino fa dell’originale di Argento non è un semplice remake; lo si sapeva da tempo. Dal cult del ’77 prende i personaggi principali (comprese le fondamentali tre madri), l’ambientazione della scuola di danza, talune situazioni para-horror auto-ridicolizzate da divertenti effetti speciali da b-movie anni ’50 (come la mano da alieno da scherzo di carnevale); e alla fine, da regista di classe, realizza un’opera del tutto originale e autonoma. Guadagnino ri-ambienta la storia nella Berlino del ’77, epoca di guerra fredda e di Muro ancora diametro divisivo di tutta la città e rilegge gli eventi che va a filmare alla luce degli scritti di Lacan, per altro esplicitamente citato sia in sceneggiatura che in un paio di scene. Ne risulta un’opera molto ricca, stratificata e complessa, che mette la maternità nelle varie sue forme alla base della narrazione, si focalizza sul senso femminile del sociale, indaga sulla creatività della donna. Si esce di sala con l’impressione di aver visto un’opera che necessita di più di una visione per essere apprezzata nel suo reale valore e che non andrebbe vista nel calderone del concorso veneziano dove troppi titoli, troppe immagini, troppe storie si accavallano insieme senza dare il tempo di un’autentica e ponderata riflessione.

Di certo si percepisce di trovarsi davanti a un lavoro queer per lo spirito e per il barocco delle immagini più che a un film lesbico in senso specifico. In una sola scena si ascoltano le parole “ti amo” tra un’allieva e la direttrice della scuola, ma potrebbero essere anche frasi di semplice affetto e di rispetto senza alcuna valenza erotica, e del resto anche la tavolata di sole donne che bevono e si divertono tra abbracci e tenerezze rimandano più alla sorellanza e all’affiatamento femminista che non ai tirsi di menadi infoiate. Assai più camp risulta invece il coinvolgimento nel cast di interpreti icone di culto nel mondo gay come Tilda Swinton, Angela Winkler o Ingrid Caven (moglie di Fassbinder). Costei, a metà pellicola, canta a cappella una Ninna Nanna di Brahms da assoluto brivido. Questa sola sequenza vale il biglietto di ingresso sala al film.

La Quietud

di Pablo Trapero

Tendenza :  5/5 (LLL)
Voto:  

Se si dice sorellanza si dice La Quietud. Se si dice lesbismo si dice La Quietud. Se si dice incesto si dice La Quietud.
Pablo Trapero che già aveva conquistato il lido con Il clan leone d’argento 2015, porta ora fuori concorso l’ultima sua opera trasgressiva e caustica, tutta ambientata nella magnifica fazenda immersa nelle campagne fuori Buenos Aires che dà il titolo al film. È qui che torna dalla Francia la primogenita Eugenia, a seguito di un ictus che ha colpito l’anziano padre. Sembra un ritorno alla magione di famiglia, tutto abbracci e ti ricordi? sì mi ricordo!, in cui si trova di nuovo sotto lo stesso tetto con la madre Esmeralda e con la sorella Mia. Ben presto, però, antiche ferite e segreti rimossi tornano a galla pronti a un’esplosione deflagrante quando alla tenuta arrivano anche Vincent, marito di Eugenia, ed Esteban, compagno delle vacanze di gioventù delle sorelle. Sembra una riunione felice, ma è solo la premessa di un inferno sommerso che attende solo di scatenarsi con tutti i propri demoni, una declinazione di Festen in salsa pampera.

Tutti mentono, ciascuno per un proprio differente motivo personale e ciascuno crede o finge di credere alle menzogne degli altri dentro una ragnatela che intrappola l’intera cerchia dei personaggi. Il tutto poi è esaltato ed elevato al quadrato dall’incredibile e inquietante somiglianza fisica tra le due sorelle, autentiche gocce d’acqua. Al centro degli intrighi ci sono mariti che sposano una sorella e la tradiscono con l’altra amata da sempre, gravidanze isteriche, amanti segreti che pretendono prove di paternità per un bambino in arrivo, mogli che in tribunale riversano sui mariti le proprie colpe per scansare i misfatti commessi, genitori che hanno sempre odiato le figlie e figlie disposte a ogni sacrificio per i genitori, con ricco corredo di scene di sesso lesbico ed etero al limite del porno (la lunga e sensualissima sequenza di Eugenia e Mia che scopano ricordando le comuni esperienze sessuali di adolescenti entra di diritto nel panteon del cinema erotico!), in un intreccio di situazioni e paradossi inarrivabili perfino nelle più imbrogliate e complicate telenovelas brasiliane.

È importante notare che tutti i misteri, i fraintendimenti e i non detti ruotano intorno al tema della maternità e della figliolanza: la sterilità di Eugenia, Esmeralda che l’ha concepita in atti di violenza coniugale, la devozione di Mia per il padre morente, il desiderio di paternità di Esteban… Troppo, troppo, troppo insistito e troppo esplicito il tema per non voler indicare altro rispetto a sé. Una possibile e realistica traccia la si può trovare nel quadro storico in cui le vicende sono calate, quella particolare epoca tra la fine della dittatura dei generali e l’avvio della nuova democrazia in Argentina. Se leggiamo il film di Trapero come una metafora della storia del suo paese negli ultimi decenni, allora sia il titolo che tutti i personaggi assumono un significato allegorico e tanto i paradossi che gli eccessi trovano una plausibilità e una giustificazione, con le due anime della nazione (quella popolare e quella borghese) che si guardano da sempre con attrazione e repulsione e che oggi potrebbero alfine fondersi davvero tra loro e dar vita a un’identità novella, così come nel finale del film l’una sorella dona all’altra un proprio ovulo perché costei possa portare a termine quella gravidanza tanto desiderata e inseguita. Se leggiamo il film in questi termini, proprio la distanza tra il realismo e la metafora diventa il limite principale di Trapero perché qui non sarebbe riuscito a sfumare a sufficienza l’intersezione tra i due piani del rispecchiamento. Opera coraggiosa, la sua, per l’uso delle immagini erotiche e per l’uso alternativo dell’idea di famiglia, ma distante dai risultati cui ci aveva abituati con Mondo Grua o Carancho. Di certo un fondamentale apporto al risultato finale gli viene dalle tre magnifiche attrici, le sensuali e generose Bérénice Bejo e Martina Gusman (nella vita reale è moglie del regista) e dalla meravigliosa caratterista Graciela Borges che incanta nella sua perfidia e imperiale inclemenza.

Cinemagay di Sandro Avanzo (pubblicato in data 03/09/2018)

THE OTHER SIDE OF THE WIND DI ORSON WELLES: CAPOLAVORO ASSOLUTO

Grande, titanico, immenso quest’ultimo film di Orson Welles. Sarebbe meglio dire “quasi di Orson Welles”. Perché quello che grazie a Netflix è arrivato in prima mondiale e fuori concorso a Venezia 75 non è certo la forma definitiva del film pensato dal grande regista, ma una ricostruzione assai prossima all’originale portata a termine dopo quattro decadi dall’amico e sodale Peter Bogdanovich: un’opera aperta, per dirla con la definizione di Umberto Eco.
Iniziata al ritorno di Welles a Hollywood nel 1970, e continuamente interrotta e ripresa per circa oltre 6 anni a causa dei continui problemi finanziari, la produzione si trascinò fino alla morte del regista che lasciò il film incompiuto e frammentato in oltre 1000 rulli finiti nel limbo di un deposito parigino. Tutti nell’ambiente cinematografico ne erano al corrente, ma nessuno era più riuscito a porvi mano, neppure Oja Kodar, ultima compagna e vestale del lavoro di Wells, che aveva perfino girato il film Jaded apposta per raccogliere i fondi necessari a completare e distribuire The Other Side of the Wind.
Solo nel 2017 lo sforzo comune tra il filmmaker Filip Jan Rymsza e il produttore Frank Marshall (che era stato il direttore di produzione al fianco di Welles al tempo dei primi ciak) riuscì a mettere in moto il processo di compimento del progetto di Welles. Nella nuova avventura di recupero sono stati coinvolti anche il musicista Michel Legrand, che ha composto una straordinaria partitura tutta jazz contemporaneo e pop vintage, insieme al film editor Bob Murawski (premio Oscar).
Per dare una prima idea del valore del film di Welles basti dire che al cast originale partecipavano i nomi più brillanti della cinematografia internazionale del periodo, da John Huston, a Susan Strasberg, da Peter Bogdanovich a Lilli Palmer e ancora Cameron Mitchell, Stéphane Audran, Dennis Hopper, Claude Chabrol, Paul Mazursky insieme a molti molti altri… li rivediamo oggi con immenso piacere cinefilo.

The Other Side of the Wind giustamente stato definito l’”8 e ½” di Welles, un’anomala opera in stile mockumentary che mescolando riprese a colori e in B/N incorpora un film dentro un film. Con chiari riferimenti autobiografici narra le vicende del regista J.J. “Jake” Hannaford (incarnato da un mesto e maestoso John Huston) al suo ritorno a Hollywood dopo anni di volontario esilio in Europa. Lì intende realizzare un nuovo film dai contenuti classici del cinema americano e dallo stile rivoluzionario avanguardistico europeo alla Antonioni che lo imporrà di nuovo all’attenzione mondiale, “un film completamente diverso da qualsiasi altro girato finora”. Nel corso delle riprese Hannaford, da sempre un mandrillo eterosessuale, finisce per innamorarsi dello scultoreo corpo del suo protagonista maschile. Quest’ultima complessa fatica di Welles è stata opportunamente definita “una meditazione sull’arte e il mestiere del cinema”.

Il coinvolgimento nelle riprese di autentici e celebri registi americani ed europei nel ruolo di sé stessi copre una vasta gamma di esperienze e di stili (Chabrol, Mazursky, Jaglom, Hopper, lo stesso Huston) e rivela i tanti punti di riferimento nell’auto-analisi di Welles e nell’intertestualità dei suoi riferimenti. Nel gioco degli specchi Huston/Hannaford è anche quell’egotico Welles dispotico regista che se non muore ucciso in un incidente stradale nel giorno del suo 70mo compleanno, firma comunque una lucida (in)volontaria premonizione della propria fine. Proprio prima della propria morte Hannaford/Huston va facendo i conti sulla propria esistenza umana e professionale e prova a raccontarla, riviverla e ripercorrerla in un film ricco di ingiustificate sequenze di sesso fatte di nudità integrali maschili e femminili, come anche in insistite riprese di stilizzata violenza. Non più nei modi dei piano-sequenza che hanno reso celebre Welles fin dal capolavoro “Quarto Potere”, ma attraverso un montaggio frenetico di un susseguirsi di scene brevissime e apparentemente antitetiche, realtà del caos e illusorio smarrimento di un senso. L’apoteosi celebrata nell’interminabile festa di compleanno di Hannaford/Huston diventa dunque emblema e bersaglio delle sue stesse iconoclastie. Distruggere tutto per tutto ricominciare “come i toreri, che erano suoi intimi amici, lasciava che le corna delle etichette passassero vicine al suo corpo, persino che si portassero via qualche pezzetto dei suoi vestiti, senza per questo scomporsi, né cedere terreno” (il critico Paolo Mereghetti ha focalizzato assai bene questo passaggio del dialogo).
Quando Welles nel trattare il tema omosessuale pone il parallelismo tra l’attore e il regista come quello tra l’uomo e Dio, lascia un’implicita lezione ai posteri e ci dice che l’importante è continuare a sperimentare sempre, a non mai esser paghi, a nascondere in forme non previste (anche nei modi volgari e popolari del giallo) le proprie rare certezze, a mettere in discussione a ogni film l’idea di Cinema e di “Fare cinema”.

Tendenza: 2/5 (G)
Voto:  (ma se si potesse 10 elevato alla n)

Cinemagay.it di Sandro Avanzo (pubblicato in data 03/09/2018)

VENEZIA 75 – BÊTES BLONDES, UNA DARK COMEDY DELL’ASSURDO E UNA RIFLESSIONE SULLE INFINITE FORME DELL’AMORE

Da Venezia 75 la recensione del critico Sandro Avanzo

“BÊTES BLONDES”

di Alexia Walther e Maxime Matray

Tendenza: 3/5 (GGG)
Voto: 

John Waters docet anche sul lato ovest dell’Atlantico. C’è molta della sua estetica in questa curiosa ed anomala opera francese realizzata a quattro mani, primo lungometraggio della coppia Alexia Walther-Maxime Matray presentato al Lido nella sezione della Settimana Internazionale della Critica. La si identifica fin dalle prime inquadrature dove è citato l’orgoglio nazionale di Le déjeuner sur l’herbe, ma in versione marcita e maleodorante, piena di insetti saprofagi e lumache bavose. Del resto non si può non riconoscere evidente l’ispirazione del trasgressivo regista di Baltimora nelle varie situazioni e negli assurdi personaggi che via via si succedono sullo schermo: club di coprofagi, blasfemi, amanti della saliva, necrofili e tutto il catalogo dei possibili oltraggiosi e (cosiddetti) perversi.

Per primo il protagonista Fabien, tramontata star di una sitcom televisiva di breve durata nei ‘70/’80, il quale si rivela afflitto da un variegato concentrato di infermità a seguito di un incidente stradale. Una particolare intolleranza alimentare lo spinge verso una voracità famelica, per cui si ingozza senza mai raggiungere la sazietà, ma dato che ha perso il senso del gusto e dell’olfatto può ingerire senza problemi qualsiasi nefandezza vegana o carnivora, mer*a e str**zi compresi (stranamente e immotivatamente va però ghiotto per il salmone); ha perso anche la sensibilità al dolore in varie parti del corpo, dunque quand’anche le sue ossa vadano a perforargli i tessuti muscolari non percepisce dolore alcuno; oltre che alcolista è anche narcolettico, ma un narcolettico del tutto sui generis che a ogni risveglio non ricorda cosa gli è capitato nelle ultime ore e negli ultimi giorni (nei modi de Il giorno della marmotta). Nel suo stare on the road incontra il giovane e triste Yoni, più un garagista e un ladruncolo d’auto che non un autentico militare come si qualifica, il quale in Costa d’Avorio ha perso il fidanzato alla vigilia delle nozze. Tale fidanzato/quasi marito verrà ritrovato dai due in una villa assai fuori Parigi, nettamente segato in due parti – da una parte la testa e dall’altra il corpo – dentro una bara pronta per il funerale. A una fermata d’autobus un tir ha perso le lastre d’acciaio che trasportava e così l’ha decapitato di netto. Alla nostra coppia di sballati protagonisti non resta che rubare la testa (viene definita “pegno d’amore”), ficcarla a forza dentro una tracolla e fuggire rubando un’auto. Verrà via smarrita, rubata da uccelli rapaci, ritrovata, ri-perduta, messa a dormire sul proprio cuscino… Non è l’unica testa tagliata che vedremo nel corso del film, un’altra compare addirittura in grado di parlare nelle vesti di analista tra le mani della “proprietaria” e allora sembra proprio di esser capitati in un film di Buñuel.

Metafora divertente dentro metafora paradossale, l’intero Bêtes blondes si sviluppa come un viaggio trasversale tra campagna e metropoli (dove mai si potrebbe trovare l’ultima sputacchiera pubblica francese se non in bar sotto la Tour Eiffel?), ma anche tra i differenti generi cinematografici (il melò come il polar, il dramma come il pamphlet politico), in un costante attraversamento e rispecchiamento di similitudini e divergenze che coinvolgono anche le vicende personali e sentimentali dei due protagonisti i quali a un certo punto potrebbero perfino rivelarsi essere padre e figlio (poteva mai mancare l’agnizione?). Dunque, espresso in questi termini, il film sembra davvero una dark comedy dell’assurdo (definizione che calza a pennello), ma si rivela in realtà come una riflessione sulle infinite forme d’amore, sulle colpe e i rimorsi che ogni passione lascia dietro di sé e nel contempo si pone come un ragionamento semantico su debiti e crediti della serialità tra lo schermo televisivo e l’industria contemporanea del cinema (le scene risolutive del finale del lavoro di Alexia Walther e Maxime Matray sono del tutto sospese in posizione equivalente tra i due media). La tragedia ridicola dell’amore tra Yoni e il suo decapitato fidanzato, punto nodale attorno a cui si intrecciano tutti gli sviluppi della storia, va chiaramente interpretata in chiave metaforica e il grottesco con cui è connotata è un chiaro atto d’affetto da parte dei due autori verso il loro paradossale personaggio. Avrà questo film una distribuzione italiana? Difficile a dirsi, a meno che un possibile premio veneziano dei critici internazionali presenti alla Mostra non lo metta in evidenza agli occhi dei nostri distributori nazionali. A noi non dispiacerebbe affatto!

Cinemagay.it di Sandro Avanzo (pubblicato in data 05/09/2018)

L’UOMO CHE SORPRESE TUTTI, DA UNA LEGGENDA SIBERIANA UN FILM PIENO DI POESIA E TENERA DUREZZA

Dalla Mostra del Cinema di Venezia la recensione del critico Sandro Avanzo. (contiene spoiler)

“L’uomo che sorprese tutti”

di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov

Tendenza: 5/5 (TTT)

Voto:  

Chissà quanti maschietti malati terminali sarebbero disposti a intraprendere il percorso del protagonista di questo singolare film russo, pur di salvarsi dalla morte?!? La coppia di cineasti Natasha Merkulova-Aleksey Chupov, coniugi nella vita, riprendono antiche leggende siberiane e per il loro primo lungometraggio le declinano in chiave sessuale.

Egor è una guardia forestale coraggiosa ed efficiente che tiene a bada i bracconieri della taiga. È anche un cittadino impegnato nella vita del villaggio assai stimato dai compaesani, nonché marito premuroso e padre affettuoso in attesa del secondo figlio. La sua esistenza cambia quando scopre di essere stato colpito da un cancro che gli lascerà due soli mesi di vita. Nessuna cura sembra potergli giovare, non la medicina ufficiale della metropoli, né i riti della sciamana del paese che però gli canta un’antica ballata in cui si favoleggia di un’oca bianca di sesso maschile che viene a sapere i termini esatti della propria prossima fine ma riesce a sfuggire alla morte imbrattandosi di fango le piume per non farsi riconoscere e mimetizzato si mescola al branco delle anatre, così che quando la grande mietitrice arriva per portarlo con sé non lo riconosce e così si salva. Se quell’oca c’è riuscita anche Egor intende farlo, ingannerà la morte diventando un’altra persona totalmente differente: una donna. Dal momento in cui prede la decisione non dirà più una sola parola con nessuno, totalmente muto anche con la moglie e i familiari, e si ritirerà in luoghi sempre più remoti, prima la sauna esterna del cortile poi una capanna nel bosco.

Sembra una soluzione facile da attuare, ma per quanto limitata possa essere la vita sociale di un borgo certe stranezze volano veloci di bocca in bocca e comportano un bruciante stigma. Il figlio viene deriso e malmenato dai compagni di scuola (Se tuo padre è un frocio, anche tu sei un frocio), gli stessi compaesani che prima facevano le collette perché si potesse far visitare dai grandi luminari ora lo coprono di bastonate. Ma Egor persiste deciso nel suo piano segreto, risponde alle persecuzioni con l’ostentazione scandalosa agli altrui occhi (anche a quelli della moglie che non lo può capire) e se ne va orgogliosamente in giro all’emporio del paese come al ballo della festa, sempre fasciato nel suo abito da donna color fragola e calzando scarpe tacco 10, e alla bisogna – dopo un pestaggio – si lecca in silenzio le ferite chiuso nel suo mutismo. Sempre più solo ed emarginato, finisce a vivere in un bosco ed è qui che viene raggiunto e sodomizzato da un branco violento di maschi infoiati e brutali. Il calvario è infinito, doloroso e lacerante ma alla fine la tomografia assiale computerizzata emette il proprio definitivo responso: guarito! Dove accidenti sono le metastasi?!

Il mito raccontato dalla sciamana ha vinto!!! Scandito nei ritmi di una ballata musicale il film si sviluppa come una favola nera contemporanea, più (lieto?) racconto della (buona?) notte per adulti che non racconto realistico o allegorico. Con momenti di grande cinema come la sequenza della prima incerta e lentissima vestizione ripresa in controluce – il tanga per primo, poi i collant, l’abito lungo al polpaccio, ultime le scarpe – o la scena tutta senza parole in cui la moglie abbraccia il marito per dimostrargli la propria accettazione e il proprio amore anche senza averne compreso il comportamento. Una magnifica fotografia dei paesaggi contribuisce al tempo stesso a creare una dimensione di claustrofobia degli esterni e di vastità degli spazi interiori. Tutto in contrasto: il silenzio contro il vociare, il borgo contro la dimensione cittadina, la famiglia contro il paese… ma soprattutto il giudizio sui valori del genere maschile (dominante) contro quelli femminili (subalterni). Egor non è un mitologico Tiresia che da uomo divenne donna per tornare uomo, ma la sua parabola intima deve completarsi totalmente, il suo corpo deve provare anche l’esperienza fisica della penetrazione da parte di un uomo, perché lui possa sperimentare per intero il sentire di una donna. Così è nel drammatico e devastante apice della sodomia, del sentire e del diventare per intero (come) una donna che la morte lo coglie (e i violentatori fuggono terrorizzati), ed è in quel preciso attimo che non è riconosciuto e riesce a ottenere la sua vittoria. Lunga vita alle leggende siberiane se ispirano ogni volta film di tanta poesia e tenera durezza!

Cinemagay.it di Sandro Avanzo (pubblicato in data 05/09/2018)

DA VENEZIA, RICORDI DEL MIO CORPO, ULTIMO FILM IN GARA PER IL QUEER LION 2018

ANNUNCIATO IL VINCITORE DEL QUEER LION 2018

Annunciato il vincitore del Queer Lion 2018

La giuria del Queer Lion 2018, composta da Brian Robinson (GB) BFI Flare: London LGBT Film Festival, British Film Institute; Rita Fabbri (Italia) Radio Ca’ Foscari, Università Ca’ Foscari; Jani Kuštrin (Slovenia) attivista LGBT

assegna Il Queer Lion Award 2018 a

“JOSÉ” DI LI CHENG
Motivazione:

“Scritto in maniera sensibile, splendidamente interpretato, questo ritratto appassionato del viaggio di un giovane alla ricerca dell’appagamento emotivo, mostra la complessità di una relazione omosessuale sullo sfondo della dura vita nel Guatemala contemporaneo.”

Altri premi ai film del concorso Queer Lion:

Leone d’Argento (Gran Premio della Giuria) a

“THE FAVOURITE” DI YORGOS LANTHIMOS
Coppa Volti miglior interpretazione femminile:

OLIVIA COLMAN PER “THE FAVOURITE”
Giornate degli Autori assegna il Director’s Award a

“C’EST ÇA L’AMOUR” DI CLAIRE BURGER (FRANCIA)
La giuria, presieduta da Jonas Carpignano, era composta da ventotto giovani europei, uno per ogni paese della comunità, partecipanti al progetto 28 Times Cinema.
Motivazione: Il film di Claire Burger è un racconto estremamente coinvolgente sulle situazioni difficili in cui ci pone la vita, sia che ci confrontiamo con la fine di un matrimonio, sia che ci venga spezzato il cuore per la prima volta. Abbiamo scelto questo film per la sua tenerezza e per la straordinaria padronanza tecnica che la regista dimostra nel tenere sotto controllo tutti gli elementi del film.

La 33ma Settimana Internazionale della Critica premia

“BETES BLONDES” (BLONDE ANIMALS) DI MAXIME MATRAY E ALEXIA WALTHER (FRANCIA)
Premio assegnato da una giuria composta da soci del Circolo di Verona e destinato al film più innovativo della sezione.
Motivazione:
La testa di Orfeo, separata dal corpo, chiude gli occhi al mondo e li apre alla visione. Non cessa però la sua pena, il suo canto non si interrompe. Per averci invitato ad accogliere questo richiamo, a guardare al dolore del vivere con sorriso assonnato, a viaggiare con vorace smemoratezza ingozzandoci di fiori e quintali di tartine al salmone, in compagnia di giovani feriti e bellissimi alla ricerca di un sapore che pare perduto. Per aver insinuato che la memoria è lo scandaglio del nostro presente, ma scordare è un atto rivoluzionario quanto cercare risposte da una sitcom camp o consigli da gatti risentiti. Per averci immersi in un ciclo di letargie e risvegli che riscrive i tratti del reale e affoga l’immagine nel sogno. Per averci obbligato a resettare i nostri sensi e le nostre costruzioni, dimostrando che un cinema radicale e svergognato è sempre possibile, anzi necessario.

Prima di entrare in sala e dopo aver visto il film va ben considerato che si è di fronte a un lavoro di provenienza indonesiana, il più grande paese islamico del globo dove l’omosessualità oltre che condannata dalla religione è anche bandita per legge. Tanto di cappello, dunque, al regista Garin Nugroho che nel suo 18° film ha voluto portare sullo schermo una storia in cui si rispecchia l’autentica realtà sociale, dove i gay sono presenti e attivi con valenza di figure scaramantiche pubbliche ma ufficialmente non se ne deve far parola né tantomeno frequentarli in privato (similmente a quanto accadeva fino a qualche decennio fa ai femminelli napoletani). Per inciso è opportuno ricordare che risale a luglio la notizia della fustigazione pubblica di una coppia di omosessuali in Indonesia.

Proprio per alzare il velo su tanta ipocrisia e narrare situazioni e fatti autentici, la pellicola si configura nelle forme di un docufilm che narra la storia di un personaggio (ispirato alla biografia di un celebre corografo giavanese) calandola in specifiche realtà e situazioni antropologiche e sociali anche non direttamente correlate, e arricchendone gli argomenti personali con quei temi sociali, politici o pubblici che possono aiutare ad approfondire il quadro.
Sono tante le esperienze che compongono la vita di Juno, tutte con profonde tracce sulla sua sensibilità e nel suo corpo. Ragazzino curioso e indipendente viene ben presto abbandonato dal padre, ma se la cava cucinando verdure e insetti che trova nel bosco e vende come delikatessen ai passanti. Passa il suo tempo libero in un centro di danza Lengger (un tipo di ballo tradizionale in cui gli uomini trasformano il proprio aspetto e il proprio movimento da maschile in femminile). Più tardi sarà lo zio sarto a insegnargli il mestiere e grazie a filo, ago e macchina per cucire conoscerà il grande amore della sua vita, un pugile di kick boxing in procinto di sposare una ragazza giavanese. Come sarto di una scalcagnata compagnia di giro valente in danze folkloristiche avrà anche modo di viaggiare e conoscere ogni angolo del paese e di incontrare personaggi di tutte le risme, dai mafiosi locali ai politici in campagna elettorale che lo vogliono con sé per scopi erotici ma anche come figura portafortuna. Non c’è una conclusione definitiva alla sua storia, c’è piuttosto la sua lunga confessione che si chiude su un palcoscenico davanti a un pubblico teatrale in grado di apprezzare l’arte della sua danza e dei suoi spettacoli.

Vediamo soprattutto i tanti corpi, quelli citati anche nel titolo del film, talora anche nudi: di Juno, del pugile, del politico, della prima donna che gli insegna i rudimenti del sesso… corpi intatti, violentati, smembrati per sottrarne gli organi, malati o sani, truccati e camuffati nel genere sessuale. Ciascuno con un’identità differente e ciascuno in grado di lasciare una diversa traccia sugli altri. Garin Nugroho insiste davvero tanto su questo concetto dei ricordi che si incidono nella carne, nelle membra e nei movimenti; tutti i suoi personaggi ne argomentano, ne riferiscono, ne ragionano compiutamente, come se fosse un’ossessione non solo loro o dell’autore, ma un tema comune a un’intera collettività. Ogni volta che la superficie della pelle viene forata da uno spillo o da un ago (su un dito, sul petto o altrove) e ne esce sangue si può star certi che una qualche disgrazia è in arrivo. Non mancano immagini di folgorante espressività come il combattimento amoroso tra il pugile che boxa alla cieca col capo coperto dalla maglietta del protagonista mentre questi intanto gli danza intorno a passi di lengger, o le scene in cui le figure coreografiche vengono eseguite su un tatami di giallo granturco. E alla fine sorge spontanea – come sempre – la domanda se mai la pellicola arriverà nelle (questa volta non italiane) sale indonesiane mussulmane, con che esito? e che reazioni provocherà?

Cinemagay.it di Sandro Avanzo (pubblicato in data 07/09/2018)

I TITOLI IN GARA PER IL QUEER LION 2018 NELLA PAGELLA DI SANDRO AVANZO

Kucumbu tubuh indahku (Ricordi del mio corpo)

Tendenza : 5/5 (GGG)
VOTO: 

“L’uomo che sorprese tutti”

di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov

Tendenza: 5/5 (TTT)
Voto:  

“BÊTES BLONDES”

di Alexia Walther e Maxime Matray

Tendenza: 3/5 (GGG)
Voto: 

Suspiria

di Luca Guadagnino

Tendenza: 1/5 (L)
Voto:  

The Other Side of the Wind

Tendenza:  2/5 (G)
Voto:  

La favorita

Tendenza: 5/5 (LLL)
Voto:  

Strano telo

Tendenza: 3/5 (GG)
Voto:  

Friedkin Uncut

Tendenza: 2/5 (G)
Voto:  

Doubles vies (Non-Fiction)

Tendenza: 1/5 (L)
Voto:  

C’est ça l’amour (Real Love)

Tendenza: 2/5 (L)
Voto:  

José

Tendenza: 5/5 (GGG)
Voto:  

Tutti i film della 12esima edizione del Queer Lion (pubblicato in data 28/08/2018)