“The World To Come”, la recensione di Ilaria Feole sul settimanale FilmTv

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È il 1856 e per sei giorni a settimana gli abitanti della contea di Schoharie, a nord di New York, si spezzano la schiena lavorando la terra; la domenica, invece, si radunano in chiesa. Tutti tranne Abigail che, da quando la difterite ha ucciso la sua bambina, non trova pace «nella nozione di un mondo migliore a venire».

Non lo dice mai, ma anche lei, forse, vorrebbe urlare in un mantra furioso che «non crede più nelle preghiere», come faceva il piccolo protagonista di The Childhood of a Leader- L’infanzia di un capo. Mona Fastvold, che di Brady Corbet è la compagna e la co-sceneggiatrice, stavolta porta sullo schermo un testo altrui, da un racconto di Jim Shepard, ma resta nell’ambito dello spaccato storico con afflato romanzesco: la voce over di Katherine Waterston legge pagine del diario di Abigail, che mentre tramuta in inchiostro i palpiti del nascente legame con un’altra donna, Tallie, documenta un capitolo nella nascita di una nazione.

Così, se Vox lux era un ritratto del XXIsecolo e The Childhood of a Leader quello dell’insorgere dei totalitarismi nel XX, Il mondo che verrà è anche un affresco del secolo precedente, di come prendono forma gli Stati Uniti un paio di generazioni dopo i pionieri. Abigail e Tallie, dolorosamente consapevoli dei limiti del proprio ruolo di donna, pensano alle loro madri e nonne, alla speranza che le abitava mentre edificavano insieme ai mariti il mito della Frontiera, e si chiedono se e quando arriverà anche per loro un momento di gloria, uno scopo più alto di quelli riproduttivi, di accudimento e di obbedienza cui sono destinate.

Il mito fondativo del western incontra il regime illusorio del mélo: Abigail e Tallie, entrambe senza figli ed entrambe, in diversa misura, obbligate a un matrimonio non felice, non trovano l’una nell’altra solo empatia e appagamento dei sensi, ma soprattutto una possibilità inaudita di futuro, un diritto a esistere in un’ipotesi diversa di nazione.

L’insistenza di Abigail nel dare a quell’amore attributi geografici, cartografici perfino, è eloquente: Tallie, che in uno dei primi incontri le fa dono di un atlante, è per lei «la mappa incompleta di una fuga», «la mia città della gioia»; un luogo, dunque, la cartina per giungere a quel mondo che verrà. La loro passione una nuova cittadinanza, dove esistere interamente, dove non essere solo una spesa registrata nel diario contabile del consorte.

Girata in soli 24 giorni, in pastoso e sensuale 16 mm, in una Romania che fa da controfigura per l’asperità del nord est degli States, l’opera seconda di Fastvold (Queer Lion a Venezia 2020) è sovrastata e interamente avvolta dalla voce narrante della protagonista, non per vezzo di messa in scena, ma perché quel linguaggio – emotivo, aperto, metaforico, agnostico – è l’esatto opposto dei linguaggi normativi parlati dagli uomini; quello finanziario del marito di Abigail (Casey Affleck, anche produttore, in un’altra tappa della sua redenzione post #MeToo) e quello religioso del marito di Tallie.

Come in First Cow, altro western che demistifica il West, anche qui due individui marginali tentano di costruire una nazione alternativa, fondata su solidarietà e parità, anziché su sopruso e profitto; e anche qui, quel mondo a venire non verrà mai.

FilmTV di Ilaria Feole